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Venezia, L’isola Dell’arte: Un Sogno Privato Diventa Bene Comune

L’isola che non c’è vista da lontano è un guscio vuoto. Sta al largo di Venezia tra le ben più grandi Murano e Burano, è un quadrato abbandonato a se stesso e se non fosse emerso naturalmente dalla Laguna, secoli fa, potrebbe essere l’Isola delle rose: una piattaforma allargata per accogliere sogni e libertà. In una versione aggiornata, decisamente meno hippy e senza bisogno di essere riconosciuta dai trattati internazionali, ma altrettanto aperta, passionale e, almeno nelle intenzioni, movimentata.

Si chiama San Giacomo, battezzata da un monastero tirato su nel 1046. Ha avuto tante vite prima di perdere i pezzi, ma, così, come è, senza più tetti sopra le costruzioni rimaste, piena di erbacce e aspettative, tra qualche giorno taglia il nastro di una nuova esistenza. In mezzo alla Biennale di Venezia che sta per inaugurare, si trasforma in isola dell’arte. Ospiterà creativi, musicisti, teatranti, spettacoli di varia natura, si aprirà al mondo, guadagnerà una fermata del traghetto che oggi la evita. Ci vorranno un paio di anni per svelare il suo potenziale, però in quattro giorni proverà un sussulto dopo decenni di abbandono.

È stata casa dei viandanti, monastero per le monache, rifugio dei frati. È stata un deposito, una polveriera nell’era napoleonica, un avamposto militare che in realtà non serviva a nessuno, è stata un cumulo di macerie, un palcoscenico improvvisato per uno spettacolo di Jerzy Grotowski (a cui sarà dedicato un bosco) poi è diventata un desiderio.

Patrizia Sandretto e il marito Agostino Re Rebaudengo l’hanno scoperta qualche anno fa. Ci hanno girato intorno, ci sono tornati sopra, hanno scoperto il costo di una follia e hanno deciso di farla. Per lei sarà la terza sede della Fondazione Sandretto dopo quelle di Guarene e Torino, per lui, Presidente di Asja Ambiente, un ecosistema autosufficiente. Per entrambi è un amore a prima vista: «Questa connessione tra arte ed energia è un po’ il simbolo di una rinascita. Ci piace pensare che tutti gli strati che compongono questo piccolo isolotto di 12 mila metri quadri riemergeranno, con il loro carattere». Fa parte dell’aspetto romantico del progetto, come l’isola delle rose, tornata popolare dopo la fiction con Elio Germano, l’idea scatta dalla sfida di trasformare un posto al punto da poterlo chiamare casa. Prendere il selvaggio e convertirlo all’uso senza perdere lo spirito originario: «In qualche modo, questa terra tornerà alle origini, accoglieva viandanti, lo farà ancora e poi c’è la suggestione di disinnescare con il restauro le polveriere che ne hanno occupato a lungo la superficie». Si mira a recuperare tutto quello che ha respirato lì: orto, viti, botanica e innestare la cultura con uno spazio che va oltre il concetto di galleria: «Ora è difficile immaginarla pronta a ospitare arte, ma noi l’abbiamo vista per quello che può diventare. Ci vuole un po’ di fantasia adesso». Ed enormi investimenti. Portarci i generatori, anche solo per affrontare i lavori preliminari e ancora prima avventurarsi nella burocrazia per l’acquisto da Cassa depositi e prestiti, milioni e milioni per un’isola che non sarà un atollo privato, anche se dovrà essere una dimora. «Ci abbiamo portato subito i nostri figli per farla diventare più di una visione, vogliamo passarci il tempo, abitarla perché altrimenti se ne perderebbe il senso solo che non ci interessa affatto stare in solitaria in un luogo lontano da tutto». L’isola delle rose si fa più grande, «noi per fortuna non dobbiamo occuparci delle sue fondamenta, San Giacomo poggia sulla sua storia ed è questo il fascino. Non ce la siamo inventata, l’abbiamo comprata il che la rende anche più concreta, densa di passato». Per cui niente sfondo di ribellione, niente repubblica esperantista con moneta e lingua autonoma, anzi San Giacomo è saldamente ancorata a Venezia e al suo sistema. Eppure ha una sua unicità, un indirizzo isolato, per ora neanche sfiorato da un mezzo di trasporto pubblico, che ha l’ambizione di nutrirsi dell’interesse della gente. Come Naoshima, l’isola museo giapponese, solo che in Italia non ci sarà la declinazione turistica, l’isola non ospiterà mai strutture alberghiere, da contratto.

Si inizia il 21 aprile con Jota Mombaça, artista che unisce le arti visive alla poesia, viene dal Brasile e firmerà la performance che fa anche da primo giorno della isola che sarà. Ora non c’è, è un guscio vuoto, il lavoro intitolato «In the tired watering» e curato da Obrist la risveglierà con la voglia di andare più in là dell’esperimento di fine Anni Cinquanta piantato dall’ingegnere Rose. Intende durare di più, ospitare senza il biglietto all’attracco e non essere solo un avamposto per la felicità, ma il centro di qualche emozione. Sogno carissimo e quindi privato che per esistere ha bisogno di un pubblico che la scopra.

Questo articolo è stato pubblicato su La Stampa il 17 aprile 2022.

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